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Introduzione

Solo poche settimane addietro – e sembra un’epoca lontana –  il noto psichiatra e scrittore Vittorino Andreoli, nell’introdurre il suo ultimo libro citava Charles Darwin e reinterpretava i tre imperativi necessari “affinché un singolo uomo e a specie umana sopravvivano nell’ambiente”: il reperimento del cibo, la sicurezza del territorio e la cura del suo spazio confinato, la procreazione.

Nulla che avesse riguardo alla tutela della salute e della vita veniva individuato come imperativo.

Non possiamo certo fare una colpa ad Andreoli di aver così circoscritto – peraltro per diversi e dichiarati motivi – la disamina dei pericoli meritevoli di una declinazione in questo tempo, sottovalutando i rischi derivanti da quella che oggi abbiamo scoperto essere una “pandemia”.

Dobbiamo prendere atto che qualcosa di imprevisto – forse prevedibile, in verità – si è verificato; qualcosa che si è inserito nel corso apparentemente immodificabile della storia, mutandone il senso e la direzione, non più segnata dalla fiducia incontrastata verso il benessere e la definitiva affrancazione dai bisogni primari.

Forse era abbagliato Nietzsche quando scriveva: “abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è un oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito… Guai se di quella nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più “terra” alcuna!” (La Gaia scienza, aforisma 124).

Siamo dinanzi ad una sfida impegnativa che ci chiama a fare i conti con ciò che non possiamo governare sino in fondo e ci pone dinanzi alla nostra “impotenza”.

Una esperienza che oltre ad interrogarci sino alla radice e a consegnarci ancora una volta le chiavi della responsabilità della storia, ci mette dinanzi al limite inscritto nell’essere uomo.

Quelle che proponiamo per la riflessione dei nostri gruppi, sono parole, è vero: ma le parole, come ricorda Papa Francesco, non“lasciano mai le cose come stanno. Danno voce a valori culturali e spirituali radicati nella memoria collettiva di un popolo, a cui restituiscono nuovo vigore. La loro fecondità è legata a una condivisione della vita; è proporzionata alla disponibilità con cui accettiamo di lasciarci interrogare e coinvolgere dalla realtà, dalle situazioni e dalle storie delle persone”.

Non saranno le parole a cambiare la nostra storia, ma dalle parole possono nascere le riflessioni che cambieranno gli occhi con i quali guardare alle strade della storia da percorrere. 

La nostra storia.

§1

Benedetto Salvarani, Le metamorfosi del corpo, tra diktat del tempo e aspirazione alla libertà, Dialoghi, 2019

A saperlo cogliere, la sacra scrittura ebraico-cristiana può essere letta come un lungo, lento faticoso esercizio a riconciliare gli uomini con la propria evidente fragilità, la finitezza, le cicatrici. Senza scansarla, e senza rifugiarci in universi consolatori, in comodi ma improbabili Dio-tappabuchi, come paventava Bonhoeffer, ma sognando sui confini. Uomini e donne della Bibbia peccano, piangono, vanno in collera, sperimentano delusioni frustrazioni, e persino il fallimento dei propri progetti di vita. Mi pare sensato, in questa chiave, interpretare la nostra fragilità esistenziale come un dono prezioso che potrebbe aiutarci a riscoprire la nostra umanità, oggi così a rischio, e non come una maledizione che, incombente, grava sulle nostre teste. L’esperienza della fragilità va considerata struttura portante e basso continuo dell’esistenza umana, con i suoi dilemmi e attese, speranze e ferite. Se ci si colloca a un livello profondo di lettura, badando alle qualità della persona nel suo relazionarsi agli altri, la fragilità si trasforma in qualità positiva: parla della capacità di condivisione e di lasciarsi modificare. Così la fragilità non solo fa integralmente parte della nostra vita ma ne rappresenta, almeno potenzialmente, spazio di riscatto e occasione per rifornire di senso i nostri giorni. Grazia e luminosità, dunque, non solo ombra e notte oscura dell’anima (pag. 26).

§2

Progetto formativo dell’Azione Cattolica Italiana

Oggi è come se vivessimo in un grande supermercato di opportunità, di modi di vivere… Questo contesto contiene una grande sfida per l’educazione alla libertà, che mai come oggi appare decisiva. Proprio perché ciascuno si trova di fronte a molte opportunità, rischia paradossalmente di essere meno libero, esposto al rischio di diventare dentro di sé il riflesso del grande supermercato esterno. In questa condizione, si diviene se stessi solo accettando la sfida di scegliere, di autodefinirsi, e di saper motivare le proprie scelte. Conseguenza dell’indeterminatezza dei confini all’interno dei quali le persone vivono, si pensano e decidono è l’affievolirsi del senso del limite. L’ampliarsi pressoché infinito delle possibilità di scelta e di esperienza, che si offrono agli individui e ai soggetti sociali, contribuisce al formarsi di una psicologia che si abitua a non incontrare mai ostacoli in grado di limitare naturalmente o di delimitare i desideri e azioni (Capitolo 3).

§3

Remo Bodei, Limite (Il Mulino, 2016)

La condizione della specie umana è contraddistinta dall’essere circoscritta da limiti che sono mobili e cangianti, in quanto – a differenza degli altri animali – ha una storia articolata in culture che si modificano nel corso del tempo. Con un paradosso si è detto che “l’uomo è l’essere confinario che non ha confini”, proprio perché nel trovarli, perlopiù li supera. Soprattutto la modernità occidentale è stata intesa, non senza enfasi, come una consapevole e sistematica violazione dei termini prefissati, che avrebbe trasformato l’uomo in superbo e libero creatore del proprio destino, in un essere teso a negare la propria finitudine, ad autotrascendersinello sforzo di diventare sempre più simile a Dio. La ripetuta e vittoriosa esperienza del varcare ogni genere di confini (geografici, scientifici, religiosi, politici, ambientali e, recentemente, perfino biologici) avrebbe pertanto finito per generare una sorta di delirio di un’impotenza, di vertiginosa autoesaltazione spinta al punto di negare che, in linea di principio, esistono limiti invalicabili (pagg.7-8).

(…)… il viaggio senza vie tracciate in anticipo sembra costituire un tratto distintivo della modernità. Seppure in forme episodiche e letterarie, il suo cuore però è antico e le peripezie hanno come archetipo Odisseo, che, seguendo l’oracolo di Tiresia, torna a Itaca solo per ripartire (senza parlare di altri esseri mitici, come l’Olandese Volante o l’Ebreo Errante, condannati a un interminabile vagare). Simbolicamente, questa navigatio vitae è stata, comunque, da tempo dichiarata valida per ognuno di noi: “vousetesembarqués” ammoniva già Pascal. Che gli uomini poi non possano accettare i limiti, che non possano sostare a lungo nel presente, perché marchiati a fuoco dalla “mala contentezza” e “famelici anche della fame futura”, lo mostrano, quali campioni della modernità, sia Machiavelli che Hobbes. In termini positivi, quest’ultimo considera, del resto, la felicità stessa come una corsa continua, un non fermarsi e un non contentarsi mai, un “progredire che incontra un minimo di impedimenti al conseguimento di fini sempre più avanzati. Il limite diventa, quindi, immancabilmente provvisorio, si sposta con i soggetti al pari dell’orizzonte, chiude per aprire, è fatto per essere sormontato. Questo è il senso più pregnante della parola “progresso” che non coincide più né con la trasgressione, né con la hybris, ma si nutre piuttosto del bottino strappato agli arcana natura, agli arcana Dei e agli arcani imperii (pagg. 95-96).

§4

Chiara Giaccardi – Mauro Magatti, La scommessa cattolica (Il Mulino, 2019) 

Oggi, il cielo in Europa sembra ormai chiuso, senza spiragli per vedere al di là di far filtrare il desiderio di Dio. Potrebbe essere diversamente?

Guardiamoci attorno. Cosa vediamo? Solo l’uomo e le sue opere: manufatti, strumenti, strutture, macchine, dispositivi, artefatti. Un ambiente totalmente antropizzato fin da quando ci alziamo al mattino (nelle nostre case, con tutte le comodità che ci siamo concessi) e per tutta la giornata (in auto, in ufficio, al supermercato, mentre attraversiamo i molteplici spazi urbani in cui si svolgono le nostre attività), fino alla sera davanti alla tv, ai display digitali o allo schermo un di cinema non vediamo altro che “uomo”. Immersi come siamo in questa grande bolla, com’è possibile arrivare a porsi la domanda di Dio?

È come se negli ultimi due secoli – durante i quali, come dicono alcuni scienziati, è iniziata l’era dell’Antropocene, cioè una nuova era geologica in cui persino gli equilibri della biosfera hanno cominciato a modificarsi a causa dell’attività umana – avessimo costruito attorno a noi una capsula che avvolge completamente l’esperienza quotidiana, nella quale ci sentiamo rassicurati e dove persino la morte sembra svaporare. Una capsula senza finestre e perciò senza più un “fuori”, senza possibilità di una trascendenza. Non si riesce a vedere l’invisibile. Anche perché l’intero immaginario – quello spazio che sin dai dipinti delle caverne preistoriche ha ospitato un “altrove” – è saturato da tutto ciò che i media riversano, istante per istante, nei nostri dispositivi e intorno a noi.

Trovare il modo di tirarsi fuori dal (dis)ordine sociale in cui siamo immersi richiede un atto consapevole di dislocazione. Difficile, sempre più difficile.

Non siamo più dentro una rete di interconnessioni dotate di senso che va riconosciuta e rispettata, della quale sentirsi parte. Come ha scritto Ivan Illich, siamo passati da un’idea di “cosmo” governata da Dio a quella di un “mondo” disponibile e manipolabile, totalmente nelle mani dell’uomo. Un mondo che, nei secoli in cui le utopie e le ideologie politiche erano in grado di mobilitare le coscienze, si è pensato come “scena della storia”. E che ora si concepisce semplicemente come un “sistema”: una grande organizzazione tecnico-funzionale senza altro fine se non l’aumento delle possibilità di vita individuali. 

Se tutto è uomo, se “tutto è intorno a te”, non c’è più l’alterità dalla quale lasciarsi interpellare. Come scriveva anche de Certeau “avendo perduto il cosmo che formava il quadro della sua esistenza e l’oggetto del suo sapere, l’uomo di questo tempo è costretto a cercare in sé stesso una certezza e una regola” (pagg. 15 -16).

(…) L’uomo ha certo la vocazione di diventare un dio, ma gli è irrevocabilmente interdetto di riuscirvi, il che trasforma questa aspirazione in una nuova forma di disperazione, di grottesco” scriveva con estrema lucidità De Martino. Il problema è che l’Homo Deus altro non è che la proiezione di quella capacità di astrazione che dà forma all’organizzazione sociale nella quale viviamo. Con i suoi dogmi, le sue norme, i suoi limiti. Dove a venire meno è lo stesso spazio per l’esperienza religiosa, sempre più confinata nei limiti angusti di un privato che – dovendo coincidere con l’individuale – finisce per perdere ogni rilevante significato. 

Ma è davvero questa la via per la libertà e la pienezza tanto agognate? È realistica la pretesa contemporanea dell’autosufficienza? La consapevolezza di sé non rischia forse di trasformarsi in una pesante armatura, una gabbia che ci fa perdere qualcosa di essenziale, e cioè la possibilità di nutrirci di ciò che è altro da noi, di sbilanciarci verso altri, e così poter andare oltre noi stessi e i nostri limiti? (pag. 30).

In fondo il filo di continuità che lega la cristianità alla modernità gira proprio attorno al tema di quella mancanza costitutiva tipica dell’uomo a cui diamo il nome di desiderio. L’essere umano è dunque un’autonomia in connessione, o per dirla con Guido Cusinato, “una totalità incompiuta”: pur senza essere (etero)determinato, è tuttavia costitutivamente relazionale. Insieme “legato” e libero, secondo il paradosso tipico dell’umano. Ciascuno è libero in relazione. Poiché non siamo monadi o atomi nel vuoto, possiamo fare quello che vogliamo, ma ogni nostra azione ha premesse e conseguenze che vanno ben al di là di noi. E di esse, che ci piaccia o no, risponde. A tale apertura il cristianesimo non offre una risposta normativa, bensì antropologica. Nel Vangelo non è presentata una dottrina – è stata piuttosto elaborata dall’istituzione ecclesiale nel corso del tempo, con finalità comprensibili – ma un modo di essere uomini e donne nel mondo. Una postura antropologica. L’insegnamento fondamentale che Cristo trasmette ai suoi discepoli increduli è infatti che la salvezza sta nel ribaltare l’idea di vita: una vita che si può trovare davvero (il centuplo quaggiù, Mc 10, 29-30: già in questo mondo, non in un altro!) a condizione di avere il coraggio di andare al di là della prigione dell’io e della sua angosciosa e sempre insoddisfacente spinta all’autoaffermazione. Di rischiare, cioè, la propria vita oltre sé stessi – andando al di là dell’istinto animale all’autoconservazione – per vivere pienamente la vocazione tipicamente umana della proiezione eccentrica. Trattenere la vita, allo scopo umanissimo di preservarla, è invece la via per perderla. Cioè per vedersela sfuggire dalle mani. Perché il paradosso – che come abbiamo visto è alla base della fede cristiana – è anche la logica dell’umano. Per questo il Vangelo non è un insieme di moniti repressivi, ma la Parola che ci aiuta ad osare quel movimento esistenziale senza il quale non riusciremo mai a vivere pienamente. Un movimento di pienezza e non di rinuncia. Di audacia e non di timore (pagg. 72-73).

§5

Proponiamo l’ascolto di 

“Un senso” di Vasco Rossi                                                                                             “Sì viaggiare” di Battisti-Mogol

§6

E infine, per non lasciarvi senza dolce consolazione nel nostro viaggio con l’esperienza del limite.

Dante Alighieri, Convivio“Come lo buono marinaio, come esso appropinqua al porto, cala le sue vele, e soavemente, con debileconducimento, entra in quello; così noi dovremmo calare le vele delle nostre mondane operazioni e tornare a Dio con tutto nostro intendimento e cuore, si che a quello porto si vegna con tutta soavitade e con tutta pace”. (IV, XXVIIII, 2-3).